lunedì 16 dicembre 2013

Il pensiero di un cantautore anarchico: Fabrizio De Andrè.

Nato a genova il 18 febbraio 1940 da una famiglia d'alta borghesia, già all'età di 17 anni Fabrizio De Andrè comincia a frequentare i circoli libertari della sua città, non discostandosi più dal pensiero anarchico. Grazie al padre inoltre, aveva la possibilità di ascoltare i dischi di George Brassens, che per lui non fu solo un maestro didatticamente parlando, ma soprattutto un maestro di vita. Gli insegnò che la ragionevolezza e la convinvenza sociale autentica si trovano maggiormente in quella parte umiliata ed emarginata della società. Infatti, per De Andrè, fare musica significava soprattutto raccontare storie di gente comune, col fine di capire meglio il mondo in cui viveva.
 Più che gente comune sono gli emarginati i protagonisti delle sue canzoni, le persone che stanno all'ultimo gradino della scala sociale, che cercano e trovano la propria libertà contrastando necessariamente con la legge. Le canzoni come Bocca di rosa, Il Pescatore, o ancora Nella mia ora di libertà (quando pronuncia la frase "ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame"), ne sono un esempio. Tendeva sempre a giustificare e di scusare socialmente certe azioni che erano magari delinquenziali per il fatto che le persone che le commettevano non avevano avuto quell'opportunità di poter essere uguali agli altri, soprattutto dal punto di vista economico, ma anche per l'impossibilità di studiare.
Esemplare è Ballata di Michè, in cui viene raccontata la storia di Michele Aiello, emigrato del sud che, sentendosi al di fuori della società a cui era approdato, aveva un'unica cosa: una donna a cui appigliarsi. Ma qualcuno più ricco di lui aveva tentato di portargliela via; lui l'aveva ucciso e gli avevano dato 20 anni di galera.
In tutta la sua discografia si può notare l'impronta puramente anarchica di De Andrè, da brani che vanno dall'antimilitarismo (come La guerra di piero e girotondo), alla prostituzione (Via del campo e Bocca di rosa), dagli atti folli d'amore (Ballata dell'amore cieco o della vanità) a temi rivoluzionari e puramente anarchici (La canzone del maggio, Il bombarolo, Se ti tagliassero a pezzetti), ma secondo me il pezzo che più caraterizza il suo pensiero è La città vecchia. De Andrè s'ispirò alla omonima poesia di Umberto Saba e in questo post vorrei confrontarle. Qui di seguito è esposta quella si Saba:

Spesso, per ritornare alla mia casa
Prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
Qualche fanale, e affollata è la strada.
Qui tra la gente che viene che va
Dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
Che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.
Qui degli umili sento in compagnia
Il mio pensiero farsi
Più puro dove più turpe è la via.
_______________
Il poeta ci presenta l'affollato quartiere del porto di Trieste facendoci capire molto velocemente il degrado che caratterizza le persone che lo popolano. Ma Saba scorge la presenza dell'infinito, e quindi di Dio, in queste persone che mostrano tanta umiltà.
Qui potrete trovare il testo di Fabrizio De Andrè: La città vecchia.
La differenza fra i due testi salta subito agli occhi: pur adottando lo stesso titolo e persino gli stessi protagonisti (sono presenti in entrambi la figura della prostituta e quella dei "quattro pensionati mezzo avvelenati", rappresentati in Saba come "il dragone che siede alla bottega" e il "vecchio che bestemmia"), nei protagonisti di De Andrè Dio non è presente, anzi; Egli non "dà i suoi raggi". Per quanto mi riguarda inoltre, Saba opera nei suoi personaggi una sorta di compassione legata probabilmente al suo credo religioso, una caratteristica che in De Andrè si traduce in una comprensione profonda della loro condizione di emarginati ("se non sono gigli") e delle loro azioni. 

Luca Martis


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