martedì 17 dicembre 2013

Il privilegio di ridere e far ridere

Anche oggi, prima di scrivere, sono entrato in crisi di argomenti. Il punto è che i temi che si vogliono trattare sono tanti e i problemi nascono quando questi devono essere sviluppati.
Poi però la lampadina si è accesa e almeno per oggi so di cosa parlare.

L'umorismo, l'ironia, la comicità, il sarcasmo, sono parole che descrivono modi di dire e di fare volti a far ridere e riflettere. Questo binomio risata-pensiero oscilla in base alla qualità dell'affermazione: se si pronuncia una battuta grassa, essa non nasconde perle di saggezza (o almeno dovrebbe essere così), quando invece la frase pronunciata risuona come serpentina e pungente, allora ecco che dietro quell'insieme di parole molto probabilmente risiede un concetto che va molto al di là della battuta ed invita a riflettere.

Andando oltre le proprie preferenze, una battuta è essenzialmente un corpus di parole che almeno nella teoria dovrebbe suscitare sorrisi e risate. Niente di più naturale e piacevole ma niente di più delicato e sottile.
Pirandello (ebbene si, ho reminiscenze del liceo) distingueva tra comicità e umorismo: la prima è un qualcosa di ingenuo e disinteressato, la seconda è un che di più amaro. Lo scrittore nel saggio l'Umorismo (1908) spiega, disserta e ragiona su questa differenza e ci fa capire che dietro una semplice frase si cela un qualcosa di più complesso e intricato.
Ancora più ramificato è l'uso che si fa del sarcasmo. Come dicevo in un precedente articolo, la politica italiana verte (quasi) esclusivamente su slogan e frasi divertenti (la battuta, cosa nobile, al servizio della ricerca del voto).

Ma senza addentrarci nel pensiero di grandi scrittori (non riuscirei a rendere bene i loro concetti) mi limito ad esaltare e a mostrare apprezzamento verso tutto il mondo della battuta e dell'umorismo, del sorriso e della risata.

La relazione che intercorre tra espressione (verbale e gestuale) e risata è benefica a prescindere: la risata nel caso della comicità grassa fa stare un po' meglio le persone che possono essere tristi e il sorriso nel caso della pungente battuta fa riflettere e scardina miti e falsità.
A ben pensare, l'umorismo e l'ironia sono gli strumenti al servizio dei rapporti sociali e dell'intelligenza.
La scienza avvalora questa tesi poiché sono sempre più numerosi gli studi che confermano che dietro una risata o un sorriso l'individuo sviluppa una sensazione di felicità e allegria, nella migliore delle ipotesi riesce a guardare con ottimismo la realtà che lo circonda.
Altre ricerche mettono in luce che il sorriso è contagioso e migliora l'ambiente della comunità.


Insomma, come le cose più belle, l'umorismo e la risata sono azioni semplici e naturali. Il mio augurio (che faccio anche a me, permettetemi) è che non dobbiamo mai smettere di essere comici (tutti lo siamo), di essere pungenti, di ridere e di sorridere. L'umorismo fa stare bene e fa ragionare … Forse nel mondo dell'espressione, non c'è niente di più bello ed efficace.

Corrado Schininà

lunedì 16 dicembre 2013

Il pensiero di un cantautore anarchico: Fabrizio De Andrè.

Nato a genova il 18 febbraio 1940 da una famiglia d'alta borghesia, già all'età di 17 anni Fabrizio De Andrè comincia a frequentare i circoli libertari della sua città, non discostandosi più dal pensiero anarchico. Grazie al padre inoltre, aveva la possibilità di ascoltare i dischi di George Brassens, che per lui non fu solo un maestro didatticamente parlando, ma soprattutto un maestro di vita. Gli insegnò che la ragionevolezza e la convinvenza sociale autentica si trovano maggiormente in quella parte umiliata ed emarginata della società. Infatti, per De Andrè, fare musica significava soprattutto raccontare storie di gente comune, col fine di capire meglio il mondo in cui viveva.
 Più che gente comune sono gli emarginati i protagonisti delle sue canzoni, le persone che stanno all'ultimo gradino della scala sociale, che cercano e trovano la propria libertà contrastando necessariamente con la legge. Le canzoni come Bocca di rosa, Il Pescatore, o ancora Nella mia ora di libertà (quando pronuncia la frase "ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame"), ne sono un esempio. Tendeva sempre a giustificare e di scusare socialmente certe azioni che erano magari delinquenziali per il fatto che le persone che le commettevano non avevano avuto quell'opportunità di poter essere uguali agli altri, soprattutto dal punto di vista economico, ma anche per l'impossibilità di studiare.
Esemplare è Ballata di Michè, in cui viene raccontata la storia di Michele Aiello, emigrato del sud che, sentendosi al di fuori della società a cui era approdato, aveva un'unica cosa: una donna a cui appigliarsi. Ma qualcuno più ricco di lui aveva tentato di portargliela via; lui l'aveva ucciso e gli avevano dato 20 anni di galera.
In tutta la sua discografia si può notare l'impronta puramente anarchica di De Andrè, da brani che vanno dall'antimilitarismo (come La guerra di piero e girotondo), alla prostituzione (Via del campo e Bocca di rosa), dagli atti folli d'amore (Ballata dell'amore cieco o della vanità) a temi rivoluzionari e puramente anarchici (La canzone del maggio, Il bombarolo, Se ti tagliassero a pezzetti), ma secondo me il pezzo che più caraterizza il suo pensiero è La città vecchia. De Andrè s'ispirò alla omonima poesia di Umberto Saba e in questo post vorrei confrontarle. Qui di seguito è esposta quella si Saba:

Spesso, per ritornare alla mia casa
Prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
Qualche fanale, e affollata è la strada.
Qui tra la gente che viene che va
Dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
Che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.
Qui degli umili sento in compagnia
Il mio pensiero farsi
Più puro dove più turpe è la via.
_______________
Il poeta ci presenta l'affollato quartiere del porto di Trieste facendoci capire molto velocemente il degrado che caratterizza le persone che lo popolano. Ma Saba scorge la presenza dell'infinito, e quindi di Dio, in queste persone che mostrano tanta umiltà.
Qui potrete trovare il testo di Fabrizio De Andrè: La città vecchia.
La differenza fra i due testi salta subito agli occhi: pur adottando lo stesso titolo e persino gli stessi protagonisti (sono presenti in entrambi la figura della prostituta e quella dei "quattro pensionati mezzo avvelenati", rappresentati in Saba come "il dragone che siede alla bottega" e il "vecchio che bestemmia"), nei protagonisti di De Andrè Dio non è presente, anzi; Egli non "dà i suoi raggi". Per quanto mi riguarda inoltre, Saba opera nei suoi personaggi una sorta di compassione legata probabilmente al suo credo religioso, una caratteristica che in De Andrè si traduce in una comprensione profonda della loro condizione di emarginati ("se non sono gigli") e delle loro azioni. 

Luca Martis


sabato 14 dicembre 2013

L'isola delle Rose

Di recente ho dato un esame di storia contemporanea. Si presume che dovrei aver acquisito un'ampia conoscenza sul recente passato dell'uomo tuttavia credo che l'obbiettivo sia riuscito a metà.
Le nozioni fondamentali per fortuna sono rimaste nella mia testa (vediamo tra qualche giorno cosa mi ricorderò), ma dietro la “Grande Storia”, quella conosciuta da tutti, vi sono vicende che passano in secondo piano e sebbene non sembrino rilevanti, nascondono dietro di sé una storia sicuramente interessante da raccontare.

Quanti di voi conoscono l'Isola delle Rose? A dispetto del nome, che sembra uscito da un romanzo, questo luogo doveva rappresentare l'utopia della civiltà, nel senso più alto del termine.
Come spesso accade, l'idea quando si tramuta in realtà diventa un grigio ricordo delle aspettative iniziali e questa storia non fa eccezione.

L'Isola delle Rose nacque nel 1968 in una piattaforma artificiale non molto distante dalle coste emiliane. Il padre della micro-nazione fu Giorgio Rosa, ingegnere bolognese.
Si disse che la ragione principale della nascita di questo stato-piattaforma era soprattutto economica: ottenere un ruolo di rilievo internazionale nei commerci sfruttando la posizione logistica della piattaforma, altri credono che lo stesso Rosa sia stato un fascista (in effetti fu soldato repubblichino) il cui scopo era quello di costruire lo stato-piattaforma per renderlo un paradiso fiscale dal quale potersi rifugiare.
Andando oltre insinuazioni e supposizioni, proviamo ad essere meno materialisti e più idealisti: un carattere della Repubblica delle Rose era la lingua. Non era l'italiano, sebbene tutti coloro che parteciparono alla nascita dell'isolotto erano emiliani, e non era nemmeno l'inglese, che in clima sessantottino avrebbe significato riconoscere la globalizzazione come un fenomeno positivo, bensì l'esperanto: questo idioma, sconosciuto a molti, è una lingua artificiale creata in finir dell'800 dall'oftalmologo polacco Zamenhof il quale puntava nell'unir sotto un unico verbo la popolazione mondiale, senza dare privilegi o giustificare sopraffazioni delle altre lingue.

L'isola, raccontano chi ha partecipato al progetto della piattaforma, doveva essere un tempio culturale, il luogo delle arti e dell'estetica, dell'amore per il sapere e della vita.
Un sogno che durò solo 53 giorni: il 1° maggio l'isola venne dichiarata indipendente e in meno di due mesi il governo italiano risolse diplomaticamente l'intricata questione e fece desistere Rosa e i suoi. La piattaforma verrà distrutta l'anno dopo e con essa l'illusione di vivere un'utopia.

A mio giudizio la storia è avvincente e sicuramente interessante. Ma non tutti (come dimostrano gli esempi fatti sopra) vedono la vicenda come un qualcosa di romantico e appassionato.

Si sa, la storia è travagliata e su di essa si speculano teorie e supposizioni. E' giusto così per provare a ricercare la verità, intanto, sviluppiamo le nostre opinioni.


                                         (bandiera dell'isola delle Rose)
Corrado Schininà

venerdì 13 dicembre 2013

Ragione e Coscienza come ricchezza immensa.

"[...] e considerando quello che è il mondo di oggi, con tutte le sue miserie, i suoi conflitti, le sua sconcertante brutalità, le sue aggressioni e così via... L'uomo è ancora com'era in passato. 
È ancora brutale, violento, aggressivo, avido, competitivo. Ed ha costruito una società basandosi su questi principi.[...]"
Questa frase, pronunciata dal filosofo apolide Jiddu Krishnamurti, ci comunica qualche cosa di terribilmente vero. Di fatti, se ci si ragiona un po' su, si arriva alla conclusione che questa società non è malata, non è affetta da un virus che ha contratto in un momento determinato della storia, no; bensì è nata così! Sembra però che in questo periodo di crisi, non solo economica ma anche delle coscienze, quest'aspetto si sia fatto più rilevante, più forte, tanto che tutti percepiamo il degrado e la mancanza di buon senso e cultura. Nessuno si fida più del suo prossimo, la criminalità è a livelli altissimi e i suicidi sono all'ordine del giorno, insomma, questo periodo è caratterizzato dalla follia. Una sorta di neo-decadentismo inonda la nostra società, e purtroppo non si tratta di alcun movimento artistico relazionato al superomismo D'Annunziano o al "fanciullino" di Pascoli.
Il problema di fondo qual è? E' la società capitalista che ha diffuso questo senso di follia? No, anche se il sistema di cui attualmente facciamo parte porta i suoi enormi problemi all'uomo comune, possiamo benissimo riscontrare problematiche simili, o addirittura peggiori, in altri tipi di sistema, come quello comunista o fascista. Ma si può tornare ancora più indietro nel tempo e analizzare le grandissime disugualianze e ingiustizie che erano presenti nella società medievale ad esempio, o ancora all'epoca dell'impero romano, caratterizzato da numerosissime congiure attuate per arrivare al potere!
E' evidente ora che i diversi tipi di società e/o sistema realizzati sino ad ora dall'uomo sono il frutto, le varie conseguenze, di questa follia generalizzata. Infatti, se si analizzano le varie epoche storiche, mai e poi mai un popolo è stato pienamente coerente e moralmente ed eticamente corretto. Molti dicono che l'indole umana è negativa, che l'uomo è portato a compiere certe azioni per natura, ma questo discorso non è solo non credibile, ma addirittura molto superficiale, dando una giustificazione troppo banale al problema, non trovate? Perciò è più saggio pensare che l'uomo, dal momento in cui si è civilizzato, è stato educato sempre in una certa maniera, con dottrine e dogmi che evidentemente portano alla sua involuzione.
Nel film Waking Life, Louis Mackey, oltre a dire che non si sono mai sviluppati i valori più importanti, si chiede "quali sono le barriere che impediscono all'essere umano di arrivare perlomeno vicino al suo vero potenziale?" sostenendo che la risposta sta nello stabilire quale sia la caratteristica universale più comune, ovvero la paura o la pigrizia.
Le persone, oggi come non mai, dovrebbero aprire la mente e cercare di capire individualmente quali barriere sono da abbattere, ragionando coscientemente e annientando così il conformismo di massa che caratterizza la nostra epoca e l'educazione millenaria di cui si parlava prima. Ogni uomo, inoltre, dovrebbe farsi carico delle idee a cui è arrivato e sostenerle come fossero la cosa più preziosa che egli stesso possiede. La ragione è la cosa più importante per un uomo. La frase di Krishnamurti sopracitata finisce così:
"Quello che stiamo cercando in tutte queste discussioni qui è di vedere se noi possiamo radicalmente portare ad una trasformazione della mente. Non accettare le cose per quello che sono, ma per capirle, per esaminarle, dai l’anima e la tua mente per tutto quello che dovete scoprire. Un modo di vivere differente. Ma, che dipende da te e non da altri. Perchè qui non ci sono insegnanti, né allievi, non c’è alcun leader, né guru, non ci sono maestri, né salvatori. Tu stesso sei l'insegnante, e l'allievo, tu sei il maestro, il guru, tu sei il leader, tu sei tutto!E capire significa trasformare quello che è."

Luca Martis (N.B. post tratto da rompilecatene.blogspot.it)

Qui sotto vi proporrò due video: il primo sarà quello da cui ho tratto la citazione per questo post; il secondo invece sarà lo spezzone di Waking Life.

 

giovedì 12 dicembre 2013

Globalizzazione antidemocratica.

Tutti ormai sanno che una delle più importanti protagoniste contemporanee è proprio la globalizzazione, grazie alla quale tutto il mondo riesce a comunicare e per la quale tutti i popoli di tutte le nazioni saranno uniti affinchè l'economia mondiale si sviluppi sempre di più, creando un mondo sempre più vivibile e con più benessere per tutti. Nonostante ciò, è sempre meglio chiedersi se questa sia la realtà o una pura immagine idilliaca, frutto dell'immaginazione di qualcuno.
Il mito della globalizzazione è stato propagandato come se fosse l'idea più geniale che i pensatori capitalisti abbiano mai partorito, illudendo inizialmente la popolazione che fosse una cosa benevola e soprattutto necessaria affinchè il mercato si sviluppasse sempre di più in un'ottica mondiale. Ma ciò che differenzia l'illusione dalla verità sta nel fatto che l'illusione non è reale. E' evidente che con questo non si nega il fatto che la globalizzazione non abbia portato benefici e benessere, no, tuttavia è bene mettere in evidenza ciò che ha tolto, che ha portato via non solo a noi ma bensì a tutto il mondo.
Innanzittutto molto sta in mano di pochi, ovvero una parte del globo, l'occidente, ha la maggior parte della ricchezza mondiale e, a sua volta, in occidente un numero esiguo di famiglie possiede tutta la ricchezza del mondo, basti pensare ai banchieri più potenti come i Rothschild o ai Rockefeller, mentre la maggioranza della popolazione è stremata economicamente da quest'ultima crisi in atto. Lo strapotere economico in mano a quest'elitè finanziaria porta, come conseguenza, ad una dittatura del mercato finanziario, che comporta ancora un'importante influenza sull'andamento della politica non solo mondiale, ma anche interna dei singoli Paesi; ciò che ne scaturisce è un'involuzione antidemocratica per quanto riguarda la politica di istituzioni come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale.
Un altro aspetto ormai lasciato decadere nell'oblio ma comunque sia ancora molto importante è la distruzione delle varie realtà culturali locali, che come ben sappiamo, caratterizzavano tutta la penisola italica. Molto interessante a questo proposito è l'intervista fatta a Pier Paolo Pasolini: egli infatti osserva come il fascismo non abbia effettivamente portato a termine quel processo di omologazione che invece, nel giro di pochi anni, la società moderna, il capitalismo e la globalizzazione ha già portato a termine, distruggendo la tradizione, i valori e le realtà locali.
E' sorprendente il fatto di come certi economisti esaltino questo processo di globalizzazione alla TV, come il caso dell'ex ministro Tremonti, il quale durante una puntata di Annozero, ora Servizio Pubblico, inizialmente pareva titubare sulle modalità di attuazione di questo processo, definendo i pensatori di questa filosofia come dei "pazzi illuminati", ma dopo pochi minuti offrì considerazioni positive per la globalizzazione e spaventosamente antidemocratiche ad un pubblico ancora ignorante sull'argomento. Un metodo simile lo utilizzò anche Mario Monti, del quale si ricordano le numerose partecipazioni al Club Bilderberg e il suo lavoro alla famosa banca Goldman Sachs, quando venne nominato governante d'Italia, pronunciando le fatidiche parole "cessioni di parti di sovranità nazionali", un evento che ancora sconvolge i militanti della sovranità monetaria. Per non parlare infine dei vari personaggi che compongono il governo attuale e che prendono parte ancora una volta alle riunioni del Club Bilderberg (tanto per citarne due, Enrico Letta ed Emma Bonino). 
Il popolo deve rendersi conto che quest'elitè non fa assolutamente i suoi interessi, ma bensì i propri, lanciando un sistema malato e privo di ogni interesse per il bene comune. Il popolo ha il dovere di informarsi realmente sulle politiche mondiali, capire che il fine ultimo della globalizzazione è arrivare ad un sistema di governo mondiale antidemocratico, ed infine ribellarsi.

Luca Martis
 (N.B. tratto da rompilecatene.blogspot.it)

Parole efficaci, Pensieri vuoti

Certo, se il giorno prima scrivo un articolo (appassionato e particolarmente sentito) sulla filosofia e il giorno dopo mi ritrovo a parlare di politica, allora mi rendo conto che un downgrade nei temi e nell'immaginazione è stato compiuto.

Tuttavia, provando a pensare ad un articolo per oggi (vi rassicuro, non riuscirò a scrivere sempre), la prima idea che mi è saltata in mente ha riguardato la comunicazione politica e i mezzi coi quali si può attirare il consenso: se ci facciamo caso, Renzi, Berlusconi e Grillo sono i tre leader dei principali schieramenti e il loro modo di attirare i voti si basa sul carisma e sulla battuta.

Analizzando un po' più a fondo, Berlusconi dà l'immagine dell'uomo che si è fatto da sé (anche se da qualche tempo è diventato il nuovo martire della democrazia), Renzi si presenta come il nuovo che avanza, Grillo come lo tsunami in grado di terremotare la Gomorra del parlamento.

Fin qui, opinioni positive e negative a parte, non ho niente da obiettare. Sulla scena politica ognuno deve recitare una parte per attirare consenso. Il problema si pone caso mai nel momento in cui bisogna discutere di temi un po' più impegnativi, le cui soluzioni non stanno né in semplificazioni, né in divertenti battute del buonumore.

Ed è proprio quando esploriamo temi impegnativi che troviamo i nostri leader in difficoltà.
Berlusconi ha fatto una campagna elettorale basata sull'abolizione dell'IMU, Renzi ha dato vita alla Leopolda (con i famosi cento tavoli, nei quali, si sono ribadite le solite cose, dette sempre con la forma dello slogan e mai dettagliando le riforme), Grillo si rifiuta di partecipare ad ogni confronto (per non mischiarsi al teatrino della politica dice lui, per non avere contraddittorio dico io).

Dal mio punto di vista, da qualsiasi prospettiva si guardi la cosa, potranno fare ridere (qualcuno di loro mi suscita la reazione contraria), potranno essere telegenici, ma in tema di competenze mi tengo il beneficio del dubbio: nel caso di Berlusconi per le sue esperienze di governo, nel caso di Renzi per la sua superficialità in merito ad alcune questioni, nel caso di Grillo per alcune sue uscite (non ultima la proscrizione dei giornalisti, che rimanda a ricordi non troppo piacevoli di “libertà al bavaglio”).

Non ultimo, e termino la mia critica (forse alcuni lettori potranno giudicarmi come pseudo-intellettuale, saccente e petulante) vorrei porre in analisi anche il metodo di intervista.
Non so quanti di voi abbiano visto il confronto tra i candidati del PD, ma discutere di temi importanti nel giro di 30 secondi è uno sporco lavoro nel quale il politico dà semplici slogan, dice poche cose e soprattutto non dice. Il tutto mentre la platea applaudisce e urla come se assistesse ad una partita di pallone. Di questo tipo di confronto c'è bisogno, sia chiaro, ma deve essere altrettanto chiaro (almeno secondo me) che un voto non lo si da a chi è stato il più simpatico. In questo senso servirebbero, oltre allo schema del botta-risposta, anche interviste più lunghe nelle quali il giornalista incalza e spinge il candidato X a dare risposte concrete e dettagliate.

Ma vabè, questi sono solo monologhi di strano studente di filosofia. Soltanto opinioni. 

Corrado Schininà

mercoledì 11 dicembre 2013

Che cosa rende l'uomo felice?


Nell'epoca del Romanticismo, Giacomo Leopardi sosteneva che l'uomo non può contrastare il suo stato effettivo di infelicità e che solo attraverso l'illusione e l'immaginazione può venir meno a quello stato e assaporare il gusto, almeno per un pò, della felicità. Ma nonostante ciò, nonostante l'arte e nonostante la reale bellezza della vita, l'uomo rimane infelice. Eppure la società moderna garantisce, almeno per quanto riguarda l'occidente, la ricerca della felicità, a cui l'umanità intera auspica, proprio come nel caso della dichiarazione d'indipendenza dei famosi Stati Uniti d'America del 1776, in cui il perseguimento della felicità è considerato un diritto inalienabile.
Ma è davvero così? E' vero che il potere garantisce ai suoi cittadini la ricerca della felicità? In un articolo del giornale La Stampa, Maggioni e Pellizzari affrontano questo tema in ambito economico, sostenendo che "ognuno si dichiara soddisfatto in relazione a ciò che può realisticamente ottenere", inoltre si pongono addirittura il dubbio del perchè, nonostante il reddito pro capite sia cresciuto, gli europei non siano più contenti di 20 anni fà! Come si può pensare che l'essere umano possa raggiungere davvero lo stato di felicità assoluta in rapporto alle entrate di denaro. Si certo, ci sarà un momento di entusiasmo per il fatto di avere più beni materiali rispetto a un tempo passato, ma quest'entusiasmo non è certo ciò a cui l'uomo aspira.
Fortunatamente la storia ha avuto personaggi della portata di Robert Kennedy, famoso giornalista e fratello del presidente americano John F. Kennedy, uno dei pochi che affermava con decisione che il P.I.L. (prodotto interno lordo) di uno stato non misura certamente il livello di felicità del medesimo. Successivamente, poco tempo dopo aver pronunciato questo discorso, morì ucciso.
Dati questi pensieri, si incomincia a capire come gli stati, e le relative costituzioni, abbiano un concetto di felicità sbagliato, contorto, e perciò è bene porsi questa domanda: è vero che il potere garantisce ai suoi cittadini il perseguimento di essa? Si, della felicità economica! Quella che un pò tutti e un po' nessuno possono effettivamente raggiungere;  si può dire che gli stati danno almeno l'illusione e questo, come diceva il caro Leopardi, dona quello stato di felicità opacizzata, di entusiasmo irrefrenabile per ciò che potrebbe avvenire in un futuro.
In realtà, una volta diventati ricchi, l'uomo diventa nuovamente inappagato, spinto da interessi e sogni ancora più grandi e di difficile realizzazione. Fondamentalmente è ciò che il modello consumistico di questo sistema capitalista impone alle masse: "compra e sarai felice"; sa un po' di bufala, non trovate?
In realtà c'è qualcuno che una volta rotti tutti i legami con questa società, ha perseguito e ricercato realmente la suddetta felicità. Christopher McCandless, protagonista del film, tratto dalla sua vita, Into the Wild, non la pensava certamente come Bauman, che nel suo libro L'arte del vivere ha uguagliato la speranza di sfuggire all'incertezza con la felicità. Christopher pensava nettamente l'opposto; partito a piedi verso l'Alaska, affermava che la felicità dell'uomo sta nell'incertezza del suo futuro. Dopo una vita passata a viaggiare e a conoscere persone interessanti, morì di fame o di avvelenamento in un autobus nella solitudine più estrema che solo la narura selvaggia dell'Alaska poteva dare.
Ma allora, visti tutti questi esempi e queste esperienze, cosa può rendere felice l'uomo?
Difficile rispondere ad un quesito a cui probabilmente non è mai stata data risposta sin da quando l'attuale specie umana è nata. Ma riguardando le vite di personaggi proprio come Christopher McCandless, sembra evidente che l'unica felicità realizzabile, per l'uomo, corrisponde alla sua stessa ricerca.

Luca  Martis

(N.B.: post tratto da rompilecatene.blogspot.it)

La Filosofia oltre la disoccupazione

La scelta universitaria è forse una delle decisioni più difficili che una persona possa intraprendere. Essa ha sicuramente raggiunto un’importanza maggiore negli ultimi tempi, visto che in un periodo come questo, molti studenti si rifugiano (spesso ignorando le proprie inclinazioni) nelle “lauree utili” con le quali si crede di entrare più facilmente nel mondo del lavoro. Scegliere un determinato corso di studi per passione in queste circostanze risulta essere più difficile di quel che si pensi.
Io, la mia scelta universitaria, l’ho meditata dopo un lungo cercare e la scelta indurrebbe molti dei lettori a chiedersi: “Perché?”.
Il mio post vuole provare a tracciare, per quanto difficile possa essere, i motivi per i quali ritengo gli studi del mio corso tutt'altro che inutili, come spesso si tende a pensare.
“Certo, – diranno in molti – filosofia potrà anche aprirti la mente, farti ragionare e via dicendo, ma a cosa serve nel XXI secolo studiare ancora Platone, Kant e Nietzsche? Come fai ad essere gradito alle imprese se non hai nessun sapere attuale o spendibile nelle lingue o nei computer?”. Queste domande me le ero poste anche io, poi però ho meditato un pensiero (molti lo potranno ritenere banale) che cercherò di esporre in queste righe. Fare filosofia innanzitutto è un atto di passione, forse addirittura di coraggio, visti i tempi che corrono e con una disoccupazione giovanile tra le più alte d’Europa. La si studia solo se c’è un vero interesse per la materia. Ed è proprio la passione il motore che spinge migliaia di studenti a scegliere ancora di studiare filosofia. Con la passione, gli studi diventano più leggeri, addirittura piacevoli in certe occasioni e poche volte stancanti. Se si ha la passione, significa che si ha la forza per intraprendere un percorso che rispetta gli “istinti intellettuali” della persona. Della mia breve esperienza universitaria, se mi posso permettere di dare un consiglio, il primo riguarda proprio di scegliere per passione. Il problema della disoccupazione è una piaga che affligge tutti e che sarà superata da quelle persone che hanno amato i loro studi: amandoli avranno recepito bene gli insegnamenti e godendo di una forte padronanza nel merito, sapranno come sfruttare le loro conoscenze nel mercato del lavoro. Onestamente credo che abbia più possibilità di trovare lavoro un laureato in filosofia (che ha amato quello che ha studiato), rispetto ad un altro che ha scelto ingegneria non per passione ma perché ritiene che gli dia più possibilità di impiego.
Entrando nel merito della questione, credo che la filosofia possa essere più utile e più attuale di quanto si possa pensare. I pensieri di Hegel, Telesio o Aristotele sono esempi con i quali il soggetto sviluppa dei life skills (delle abilità) che gli serviranno anche nella vita di tutti i giorni: studiare il pensiero di un filosofo gli consente di fare un confronto con la propria interiorità, attiva la nostra coscienza critica, ci permette di ragionare, di vedere soluzioni alternative e molte di esse sono davvero creative (in tempi di start up, app e imprese in crisi, queste qualità non lascerebbero indifferenti le aziende). La filosofia ci consente di capire il nostro pensiero, la nostra interiorità e fa mente locale di quello in cui crediamo. Confusioni mentali a parte, la filosofia crea consapevolezza, almeno secondo il mio parere. Se si ha consapevolezza di sé, si conoscono anche le proprie potenzialità e sapremo in quale settore potremo trovarci più a nostro agio. La filosofia è utile anche per il metodo che impone: alla stregua di matematica, fisica, ingegneria, economia, la filosofia ricerca un metodo rigoroso con il quale capire e scoprire. In più, se mi consentite una provocazione che verrà sicuramente ritenuta pesante, filosofia sviluppa metodi flessibili; non è rigida come i metodi delle materie scientifiche, quindi permette di “arrangiarsi” un po’ meglio ai cambiamenti e ai mutamenti che il mondo del lavoro purtroppo ci ha sempre dato. Infine, e con questo chiudo il mio sproloquio, la filosofia consente grazie alla dialettica di ascoltare e comparare i pensieri propri con quelli altrui e grazie alla retorica riusciamo a esporre una determinata idea utilizzando le nostre risorse verbali. Credo che nel mondo del marketing tutto questo sia spendibile nelle ricerche di un prodotto e nella promozione di esso, facendo leva sui suoi pregi, sminuendo i suoi difetti.
A dire il vero, le risorse che un filosofo dispone sono davvero tante. Purtroppo ad oggi il corso di laurea è sminuito e ridicolizzato da chi la passione per questa disciplina non l’ha mai avuta. Economia, ingegneria, medicina sono importanti, anzi fondamentali, ma guai a sminuire il valore (e l’utilità) che filosofia può offrire. Firmato, una matricola.

Corrado Schininà